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19-03-2013
Egitto
Da Tahrir a Port Said, l’Egitto va verso la guerra civile
Limes - A piazza Tahrir sembra che la rivoluzione non voglia prendersi una pausa nemmeno oggi. Da mesi gli scontri tra polizia e manifestanti procedono, sempre nello stesso posto, dove l’Hotel Semiramis fa angolo tra Corniche el-Nil e il ponte Qasr el-Nil. Un fazzoletto di terra di poche centinaia di metri, dove si svolge quotidianamente un tira e molla senza fine.
La polizia crea un cordone di uomini per difendere la strada che porta al ministero dell’Interno dall’avanzata di qualche decina di bambini. Alcuni di loro hanno appena 7 anni, la canottiera sporca di terra, come le loro mani. Corrono da una parte all’altra della strada in ciabatte e raccolgono da terra i lacrimogeni lanciati dalla polizia, rigettandoli nel Nilo. Scagliano pietre e azzardano un’avanzata che verrà ricacciata indietro poco dopo.
Le immagini della piazza debordante di uomini e donne, giovani e anziani, laici e credenti, finalmente uniti contro il tiranno Mubarak, sono un ricordo dai contorni sfocati.
Ora Ahmed ha preso il loro posto. Dice di avere 15 anni ma ne dimostra molti meno. I suoi genitori sono in piazza, in una delle tende montate dagli attivisti. Dice che sono senza lavoro e che lui partecipa agli scontri tutti i giorni.
Insieme ad Ahmed ci sono decine di bambini, il più grande avrà 16 anni: aspettano di tornare alla carica con altri sassi da lanciare contro la shurta, la polizia egiziana che, anche dall’alto dell’Hotel Semiramis, risponde con lacrimogeni. Un paio di giorni prima, un altro bambino di otto anni ha trovato la morte facendo esattamente quello che Ahmed fa da mesi; colpito da un proiettile della polizia, è adesso un martire della rivoluzione.
La polizia riconquista i metri perduti. Intanto, dal ponte “i grandi” assistono ai combattimenti appoggiati alla balaustra, quasi fosse in corso uno spettacolo eccitante il cui finale, però, si conosce già. Qualcuno passa col carretto per vendere tè e focacce alla platea. Dopo qualche ora è tutto finito e alla sera le auto riprendono a circolare regolarmente sulla Corniche.
La rivoluzione di piazza Tahrir ha la sua quotidianità, i suoi riti, e i suoi attori. Soprattutto bambini, poveri ed emarginati. Le cronache recenti dell’Egitto mostrano un paese segnato da profonde crepe sociali sottostanti ad un senso diffuso di incompiutezza e sospensione, preludio, forse, di una nuova esplosione di rabbia.
La piazza che per la prima volta nella storia araba moderna dimostrava al mondo che “l’infelicità araba” non poteva essere eterna vive ora un'impasse struggente. Me lo conferma Salma Hegab, 21 anni, blogger e studentessa all’American University del Cairo. “Non potrà durare così a lungo” - dice - “la gente si stancherà di questa routine e ci sarà una nuova ondata, simile a quella del 2011 ma ancor più sanguinosa”.
Salma è giovanissima, studia giornalismo. Aveva 19 anni quando è iniziato tutto e manifestava a piazza Tahrir ogni venerdì, oltre a prestare servizio negli ospedali per aiutare i feriti. “Ho conosciuto la morte e il dolore. Ma l’euforia della piazza era tale che mai avrei immaginato che si potesse trasformare in quello che è adesso. Sono stata anche in cura da uno psicologo. Ho cominciato a chiedermi se i miei amici scesi in strada per difendere i loro diritti fossero morti per nulla. Alla fine impari ad accettare la realtà.”
Le faccio notare che alcuni tra gli stessi attivisti e politici che un tempo animavano il "Movimento 6 aprile" in piazza ora ammettono che la rivoluzione è da rifare. Lei risponde risoluta: “È ridicolo pensarlo. Bisogna insistere, ripartendo da noi giovani. Siamo noi il motore di tutto. Ci sono già segnali positivi, come le elezioni dei rappresentanti studenteschi delle università, dove la Fratellanza è uscita sconfitta a vantaggio dei secolaristi”. Ma gli eventi recenti mostrano come il pericolo di una trasformazione di istanze collettive in interessi specifici, generando un tutti contro tutti, sia elevato.
Il ministero della Giustizia ha dichiarato che i privati cittadini possono arrestare coloro che vengono colti in attività sovversive, applicando così un vecchio articolo del codice di procedura penale egiziano. Il rischio è di favorire la creazione di milizie locali paramilitari. Si andrebbe verso l’anarchia, secondo l’esercito, che ha già stigmatizzato le parole del procuratore generale. Ma per strada i baltagaia (i lealisti) si sono schierati subito al fianco della polizia lanciando sassi contro i manifestanti e girando armati per strada.
L’impasse rivoluzionaria latente sembra generata da una sensazione diffusa di manipolazione sovraordinata, che attanaglia quasi tutti i protagonisti. Quando si sospetta che altri apparati di potere (un'eco dei nostri “anni di piombo”) possano trarre beneficio dall’esternazione della rabbia sociale, il popolo si ferma e dubita di se stesso. Col timore di sentirsi spodestato dalle proprie intenzioni genuine.
La strage di Port Said del febbraio 2012, dove 72 tifosi trovarono la morte anche a causa delle “negligenze” della polizia, è per chiunque un piano congegnato dall’alto. Il verdetto della settimana scorsa ha scontentato tutti, sia i tifosi dell’Al Masry di Port Said, sia gli ahlawy, gli ultras dell’Al Ahly del Cairo. I primi lamentano che le sentenze emesse dal tribunale (21 tifosi condannati alla pena di morte e altri alla reclusione) non siano supportate da alcuna prova. I secondi chiedono invece giustizia per la morte dei loro compagni, accusando i White Knights (i fans dell’Al Masry) di aver introdotto armi nello stadio.
Su un punto sono tutti d’accordo: anche la polizia deve pagare perché colpevole di gravi omissioni e di aver favorito gli scontri. Dei 9 poliziotti imputati, solo due sono stati condannati a 15 anni ciascuno.
Tanto sarebbe bastato per scatenare la rabbia dei tifosi dell’Al Ahly, già decisivi nelle rivolte che portarono alla caduta di Mubarak e che potrebbero rappresentare il nuovo braccio armato della rivoluzione. I “capi” della “curva” (termini mutuati dal gergo calcistico italiano) hanno invece preso tempo, forse per paura di fare il gioco di qualcun altro andando a sfogare la propria rabbia davanti al ministero dell’Interno. Qualcuno tra gli ahlawy però ha disobbedito: alcuni si sono precipitati a incendiare la sede della Federcalcio, altri sono andati a piazza Tahrir con le bandiere su cui erano ritratte le effigi dei martiri di Port Said. Anche il corpo granitico degli ultras è passibile di divisioni.
Eppure, una loro partecipazione massiccia agli scontri con la polizia potrebbe mettere in seria difficoltà la Fratellanza musulmana. “Gli attivisti e gli oppositori di Morsi sono disorganizzati a differenza della tifoseria” afferma il blogger e scrittore Bassem Sabry. “È vero - dice - potrebbero risultare utili alla causa, ma sarebbe meglio se ne restassero fuori. A loro non interessa la rivoluzione. Vogliono solo giustizia per i propri compagni morti a Port Said”.
Dall’altra parte, la polizia ha dato vita ad uno sciopero inedito nella storia dell’Egitto. “Guadagno 300 euro al mese e lavoro 16 ore al giorno. Lo sciopero è più che giustificato” rivela Haitham, poliziotto di Port Said. I vertici della polizia però danno motivazioni diverse, affermando che non intendono essere percepiti dalla popolazione come le milizie dei Fratelli musulmani. Si parla di spaccatura anche all’interno dei servizi di sicurezza, tra la base e il vertice. Crepe che rischiano di portare il paese verso l’anarchia e la guerra civile.
A Port Said, città che fino a ieri beneficiava di una condizione economica invidiabile grazie agli introiti derivanti dal Canale di Suez e alla Free Trade Zone, la prima sentenza di gennaio sugli scontri tra tifosi aveva portato alla guerriglia contro la polizia. La sentenza ha acceso la miccia della disobbedienza civile; la gente, scesa per le strade, ha minacciato anche il blocco del Canale, fino ad oggi scongiurato. La polizia ha usato la mano pesante, ma le proteste sono proseguite fino a costringere il governo a ritirarla dalla città. Seduto in un raffinato caffè di Port Said, Mohamed Wefki, rappresentante locale dei Socialisti rivoluzionari, non esclude il rischio di una guerra civile nel paese. “È possibile che succeda, non mi stupirei più di nulla”, ammette. “Ma a ben vedere l’unico che sta traendo vantaggi da questo caos è l’esercito, che mantiene molti consensi. Forse sono stati loro a pianificare quella strage per diffondere odio contro la polizia e contro la Fratellanza”.
Lo scorso Ramadan i militari offrivano banchetti per strada alla popolazione per ingraziarsi la gente del posto. Ora qui hanno riportato la quiete dopo che la polizia è stata allontanata. Per le strade i militari proteggono gli edifici pubblici dati alle fiamme dalla folla inferocita e dirigono persino il traffico. “Questa città è una miniera d’oro per l’Egitto. L’esercito stesso ha moltissimi interessi economici in gioco qui.” “È tutto calmo adesso. C’è l’esercito”, mi conferma Ahmed mentre sfreccia con il taxi davanti ai blindati dei soldati. Ma la rabbia generata dalla giustizia sommaria per la strage di Port Said ha generato ulteriori motivi di dissapore verso il governo. Ahmed ora fa l’autista ma fino a qualche mese fa lavorava per una delle tante aziende dell’indotto del Canale.
Gran parte della manodopera qualificata di Port Said si è ritrovata senza lavoro per via delle alte richieste salariali. Più facile assumere dall’hinterland, dove i lavoratori non beneficiano di sgravi fiscali come a Port Said. A ciò si aggiungono i timori per una presunta intesa tra Morsi e il Qatar per un piano di espansione del Canale finanziato dal paese del Golfo. “Ci hanno anche restituito la Free Trade Zone, che ci era stata tolta, per farci abbandonare le proteste” - afferma Kamal, attivista locale del Dostour, il partito liberale di El-Baradei. “Ma a noi non basta. Li abbiamo già i soldi. Anzi, se ne hanno bisogno siamo noi che possiamo darne a loro. Ora vogliamo una legge che ci tuteli e che preveda che il 90% dei lavoratori di Port Said venga da qui”.
I Fratelli musulmani si ritrovano un’intricata matassa da sbrogliare anche qui, nella ricca cittadina del Canale di Suez, cuore pulsante dell’economia egiziana e finora immune a qualsiasi sentimento anti governativo. L’esercito sembra pronto a subentrare e a traghettare il paese verso una nuova fase di transizione.
La disastrosa condizione economica nazionale imporrebbe scelte impopolari come l’aumento delle tasse, ma la fiducia nel governo sembra in picchiata e gli scioperi sono in aumento. In tanti, al Cairo, mi ripetono la stessa frase “Non sappiamo più che strada stiamo percorrendo. Morsi ci dice di prendere una direzione ma non sappiamo dove ci porterà”.
Sullo sfondo restano i giovani, quelli di piazza Tahrir, coloro da cui tutto era partito. Si sentono usati e gettati via. “Noi avevamo dei sogni - sospira Salma - poi è arrivato qualcuno e ci ha manipolato dicendo che ci avrebbe spiegato come fare per realizzarli".
"Ora il paese è allo sbando, ci mancano una visione politica e un leader. E io non mi fido più di nessuno.”